Curatori mostra

Paola Silvia Ubiali

Movimento MADI

Arte come invenzione

FRANCO CORTESE

MIRELLA FORLIVESI

REALE F. FRANGI

GINO LUGGI

VINCENZO MASCIA

RENATO MILO

G.FRANCO NICOLATO

MARTA PILONE

GAETANO PINNA

GIUSEPPE ROSA

PIERGIORGIO ZANGARA

Una delle qualità essenziali che distingue a prima vista un’opera Madí è, a mio parere, la vitalità che si percepisce immediatamente anche nel pensiero e nella personalità degli artisti del gruppo.

Sin dalla sua nascita, avvenuta a Buenos Aires nel 1946, in periodo peronista, Madí è stata un’officina di libera creazione e sperimentazione che ebbe alcune affinità con altre precedenti e/o parallele esperienze europee, dal Suprematismo russo al Neoplasticismo olandese, dal Razionalismo tedesco alla più recente École de Paris. Nel corso di oltre sessant’anni di storia senza soluzione di continuità, il movimento Madí ha saputo aprirsi a giovani seguaci, compiere una costante palingenesi evitando di chiudersi ed involversi come è accaduto a molte altre formazioni artistiche, paralizzate dalla mancanza di rinnovamento e bloccate in uno stagnante conservatorismo.

Oggi il Madismo è un fenomeno internazionale che coinvolge oltre cento artisti, tutti fra loro strettamente collegati, organizzati in gruppi in Argentina, Belgio, Francia, Germania, Italia, Stati Uniti, Ungheria, Venezuela e con singole presenze in Inghilterra, Slovacchia, Spagna, Svezia e Olanda; vanta musei dedicati e pinacoteche con raccolte esclusivamente ad esso consacrate.

Ho provato immediata simpatia per i Madisti, che con intelligenza, idee, fantasia e audacia hanno saputo produrre importanti novità nella storia dell’arte moderna e contemporanea. Madí è “arte di rottura” e le teorie che ne stanno alla base hanno dato un contributo fondamentale al rinnovamento artistico avvenuto nel dopoguerra; basti pensare alla liberazione dalla classica costruzione rettangolare o quadrata del dipinto nonché dalla costrizione della cornice; all’uso di materiali non convenzionali; all’introduzione del movimento nell’opera; all’analisi della percezione visiva nell’arte con sensibili ed utili collegamenti con le nuove teorie Gestaltiche anticipando le successive ricerche, dall’arte cinetica al minimalismo.

L’artista Madí è tutt’oggi una sorta di “costruttore”; egli manipola e modifica i materiali, diventando allo stesso tempo non solo pittore e scultore, ma anche architetto, falegname, operaio.

Sin dalle sue origini, questo metodo espressivo è andato oltre il realismo; una delle dimensioni nelle quali l’artista può esercitare la sua libertà è proprio il grado di astrazione cui ricorre per rendere il suo argomento. Avendo completamente rinunciato all’imitazione e alla verosimiglianza, i Madisti lavorano su forme non mimetiche – non nel senso classico del termine – e sono svincolati dalla sottomissione alle molteplicità della realtà. L’artista Madí cerca di cogliere l’essenza e la purezza attraverso motivi che vanno oltre la geometria, inventando forme nuove. Ma qual è il limite entro il quale egli può spingersi senza che la sua opera venga recepita come un vuoto ed insensato gioco formalistico? A mio parere fin quando permane quell’afflato vitale che distingue l’opera d’arte dal freddo motivo decorativo, fin quando riesce a svelare il significato più recondito delle cose rimuovendo quel “velo di Maya” che, nella visione Schopenaueriana, nasconde la verità. L’opera Madí non geometrizza il reale, non è narrativa, non rappresenta nulla di pre-costituito ed è inutile cercare al suo interno le forme della natura o il sentimento dell’artista come lo si può trovare nelle opere tradizionali perché l’approccio è completamente diverso.

L’opera Madí esprime se stessa e nulla di più. Dona piacere e appaga lo spettatore, ma non intende rispecchiare lo stato d’animo di chi l’ha creata. E’ il fruitore stesso che, grazie ad essa, sarà spontaneamente portato a scoprire quelle emozioni che gli vengono suggerite e che ognuno percepisce in maniera diversa.

Credo sia questo uno dei motivi per i quali l’opera Madí non stanca, non invecchia e con la sua forte componente ludica, diverte. Nell’opera Madí i vari elementi fungono da struttura e si sostengono a vicenda mantenendo una condizione imprescindibile: l’equilibrio. Le forze visive si compensano l’una con l’altra creando complicità e sinergia nei rapporti di peso, collocazione, direzione, movimento e contribuendo alla bellezza ed alla vitalità del lavoro artistico. L’artista Madí crea un oggetto “altro” organizzando le sue esperienze e le sue verità entro una forma originale e caratteristica della sua personalità. Forma quindi che non imita, ma “cattura” il senso della vita con l’ausilio delle tre dimensioni spaziali, della luce e del colore usati come strumenti di identificazione e differenziazione.

Pur lavorando con un proprio linguaggio personale ed inimitabile, in ognuno degli artisti è sempre radicata ed evidente l’appartenenza alla stessa matrice, che l’occhio attento sa riconoscere. Perché essere Madisti non è semplicemente il poter vantare l’appartenenza ad un importante movimento storico, ma è fondamentalmente un modo unico di sentire l’arte e soprattutto, uno stile di vita.

BIO ARTISTA

Una delle qualità essenziali che distingue a prima vista un’opera Madí è, a mio parere, la vitalità che si percepisce immediatamente anche nel pensiero e nella personalità degli artisti del gruppo.

Sin dalla sua nascita, avvenuta a Buenos Aires nel 1946, in periodo peronista, Madí è stata un’officina di libera creazione e sperimentazione che ebbe alcune affinità con altre precedenti e/o parallele esperienze europee, dal Suprematismo russo al Neoplasticismo olandese, dal Razionalismo tedesco alla più recente École de Paris. Nel corso di oltre sessant’anni di storia senza soluzione di continuità, il movimento Madí ha saputo aprirsi a giovani seguaci, compiere una costante palingenesi evitando di chiudersi ed involversi come è accaduto a molte altre formazioni artistiche, paralizzate dalla mancanza di rinnovamento e bloccate in uno stagnante conservatorismo.

Oggi il Madismo è un fenomeno internazionale che coinvolge oltre cento artisti, tutti fra loro strettamente collegati, organizzati in gruppi in Argentina, Belgio, Francia, Germania, Italia, Stati Uniti, Ungheria, Venezuela e con singole presenze in Inghilterra, Slovacchia, Spagna, Svezia e Olanda; vanta musei dedicati e pinacoteche con raccolte esclusivamente ad esso consacrate.

Ho provato immediata simpatia per i Madisti, che con intelligenza, idee, fantasia e audacia hanno saputo produrre importanti novità nella storia dell’arte moderna e contemporanea. Madí è “arte di rottura” e le teorie che ne stanno alla base hanno dato un contributo fondamentale al rinnovamento artistico avvenuto nel dopoguerra; basti pensare alla liberazione dalla classica costruzione rettangolare o quadrata del dipinto nonché dalla costrizione della cornice; all’uso di materiali non convenzionali; all’introduzione del movimento nell’opera; all’analisi della percezione visiva nell’arte con sensibili ed utili collegamenti con le nuove teorie Gestaltiche anticipando le successive ricerche, dall’arte cinetica al minimalismo.

L’artista Madí è tutt’oggi una sorta di “costruttore”; egli manipola e modifica i materiali, diventando allo stesso tempo non solo pittore e scultore, ma anche architetto, falegname, operaio.

Sin dalle sue origini, questo metodo espressivo è andato oltre il realismo; una delle dimensioni nelle quali l’artista può esercitare la sua libertà è proprio il grado di astrazione cui ricorre per rendere il suo argomento. Avendo completamente rinunciato all’imitazione e alla verosimiglianza, i Madisti lavorano su forme non mimetiche – non nel senso classico del termine – e sono svincolati dalla sottomissione alle molteplicità della realtà. L’artista Madí cerca di cogliere l’essenza e la purezza attraverso motivi che vanno oltre la geometria, inventando forme nuove. Ma qual è il limite entro il quale egli può spingersi senza che la sua opera venga recepita come un vuoto ed insensato gioco formalistico? A mio parere fin quando permane quell’afflato vitale che distingue l’opera d’arte dal freddo motivo decorativo, fin quando riesce a svelare il significato più recondito delle cose rimuovendo quel “velo di Maya” che, nella visione Schopenaueriana, nasconde la verità. L’opera Madí non geometrizza il reale, non è narrativa, non rappresenta nulla di pre-costituito ed è inutile cercare al suo interno le forme della natura o il sentimento dell’artista come lo si può trovare nelle opere tradizionali perché l’approccio è completamente diverso.

L’opera Madí esprime se stessa e nulla di più. Dona piacere e appaga lo spettatore, ma non intende rispecchiare lo stato d’animo di chi l’ha creata. E’ il fruitore stesso che, grazie ad essa, sarà spontaneamente portato a scoprire quelle emozioni che gli vengono suggerite e che ognuno percepisce in maniera diversa.

Credo sia questo uno dei motivi per i quali l’opera Madí non stanca, non invecchia e con la sua forte componente ludica, diverte. Nell’opera Madí i vari elementi fungono da struttura e si sostengono a vicenda mantenendo una condizione imprescindibile: l’equilibrio. Le forze visive si compensano l’una con l’altra creando complicità e sinergia nei rapporti di peso, collocazione, direzione, movimento e contribuendo alla bellezza ed alla vitalità del lavoro artistico. L’artista Madí crea un oggetto “altro” organizzando le sue esperienze e le sue verità entro una forma originale e caratteristica della sua personalità. Forma quindi che non imita, ma “cattura” il senso della vita con l’ausilio delle tre dimensioni spaziali, della luce e del colore usati come strumenti di identificazione e differenziazione.

E’ quanto emerge per esempio dalle opere di Mirella Forlivesi nelle quali il colore accentua le qualità espressive della forma e funge da componente dinamicizzante, stimolo sensoriale ed emotivo, creando profondità e tridimensionalità. Non sempre il colore è determinante nell’opera Madí. C’è anche chi, come Franco Cortese, rinuncia alla varietà dei cromatismi per indagare le forme attraverso le essenziali preziosità del nero con l’impiego di materiali inusuali, impermeabili alla luce, come il ferro grafitato. Giuseppe Rosa si dedica sia a sviluppi optical, esprimendosi nell’eleganza di contrasti bianco/nero, che alle potenzialità espressive di piani dai colori primari allacciati tra loro, abbinati ad inserti in alluminio, con particolare attenzione a rigore e simmetria.

Si tratta di una scelta piuttosto diversa da quella di Piergiorgio Zangara che lavora con il plexiglas colorato traslucido; questi basa le sue ricerche sulla sovrapposizione di trasparenze percorrendo le forme ed evidenziandone le linee strutturali quasi come in un ologramma, o ancora incasellandole e inscatolandole in complessi calcoli sequenziali. Reale Franco Frangi individua le forme geometrice primigenie, le sovrappone, le espande nell’ambiente creandone di nuove ed irregolari, dando luogo a costruzioni architettoniche immaginarie; parallelamente lavora sulla dinamica delle molteplici possibilità di accostamento dei colori suggeritegli da raziocinio e fantasia, prestando massima attenzione all’equilibrio strutturale della composizione. Gaetano Pinna realizza sia costruzioni mobili in forex leggere, aeree e liberamente fluttuanti, che strutture proiettate nello spazio, incastrate nella torsione di un perpetuo movimento rotatorio su più piani. Gino Luggi sceglie forme semplici e pure, poi ne smorza la severità ritagliandole ed arricchendole con particolari inserti colorati che segnano le trame dei suoi percorsi immaginari.

Marta Pilone studia le potenzialità della linea sinuosa attraverso virtuosistici giochi di onde, curve spezzate, cerchi e semicerchi, sottomettendo e piegando la materia alle sue precise esigenze. Il linguaggio di Renato Milo trova la sua forza nella levità dei materiali trasparenti o specchianti, attraverso i quali costruisce strutture tridimensionali dalle forme tortili o aggettanti, vibranti di luce ed iridescenze.

La grammatica di Vincenzo Mascia alterna rigore compositivo e timbrico – nelle opere di stampo più costruttivista – a libertà espressiva nei lavori in cui l’artista traccia brevi segni diagonali colorati che “disturbano” giocosamente ed interrompono ad intermittenza le superfici monocrome. Gianfranco Nicolato rivela una forte capacità di inventare composizioni articolate “double-face”, fruibili quindi da entrabi i lati, assemblando segmenti circolari/lineari in oralcover o in multistrato smaltato con esiti di sorprendente estro strutturale.

Pur lavorando con un proprio linguaggio personale ed inimitabile, in ognuno degli artisti è sempre radicata ed evidente l’appartenenza alla stessa matrice, che l’occhio attento sa riconoscere. Perché essere Madisti non è semplicemente il poter vantare l’appartenenza ad un importante movimento storico, ma è fondamentalmente un modo unico di sentire l’arte e soprattutto, uno stile di vita.

Opere

Photo gallery

Luogo

Galleria Marelia – Bergamo

Date

7 marzo – 30 aprile 2009